Va detto subito e senza tanti preamboli: Il Grande Spirito è un piccolo gioiello da vedere e rivedere.
Un’opera avvincente che travalica svariati generi cinematografici, dal western surrealista alla commedia all’italiana fino al cinema neorealista, con un utilizzo del dialetto davvero azzeccato. Diretto e interpretato da Sergio Rubini – qui davvero in gran forma – alla guida di una manciata di attori ben diretti tra i quali spicca un superbo Rocco Papaleo, la pellicola racconta una storia di purezza e criminalità in una dedalo di tetti e ciminiere di una Taranto sanguigna e violenta, segnata dalla presenza dell’Ilva, vero e proprio “totem” dell’intero film.
Tonino (Sergio Rubini) è uno scalcinato rapinatore che un giorno, per riscattarsi da un errore umiliante per il quale gli è stato affibbiato il nomignolo di “Barboncino”, sottrae il frutto di una rapina ai suoi complici dandosi alla fuga tra i tetti di Taranto. Braccato dai malviventi trova rifugio sulla sommità di una terrazza condominiale abitata da Renato, un uomo affetto da disturbi psichici (Rocco Papaleo), convinto di essere Cervo Nero, un Sioux in attesa dell’Uomo del destino per trasferirsi in Canada e abitare nelle vaste praterie popolate di bisonti. Naturalmente l’Uomo del destino è proprio Tonino al quale non resta, suo malgrado, che affidarsi a questo improbabile pellerossa con bandana e piuma dietro l’orecchio, per portare a termine il suo progetto di salvezza e riscatto.
Scritto con Carla Cavalluzzi e Angelo Pasquini, il tredicesimo film di Sergio Rubini si presenta dunque come un cammino di redenzione animato da una sorta di realismo magico che rende il racconto molto simile ad una fiaba urbana brulicante di carne e di sogni, una commedia a tratti nera, western e surrealista, dove la città di Taranto è come la terra dei Siuox devastata dagli yankee, ma ancora non del tutto sopraffatta. Qualcosa resiste, proprio come nel cinema italiano, qui in una prova ben riuscita e originale.